L’asfalto si srotola dritto, nero e sempre uguale sotto i fari della mia macchina. Stanotte mi sembra un vero peccato che questo paese è così lungo. Stanotte questa bella terra a forma di stivale volevo fosse una scarpa diversa, bassa e senza tacco, come quelle che si usano adesso, così stavo già da te. Devo arrivare fin giù in fondo e ancora ce ne vuole. Per fortuna, sopra il cavalcavia dell’autostrada, una luna quasi piena, grossa, rossa e bassa sull’orizzonte, mi fa compagnia. Così, al nord, non se ne vede proprio. Non se ne vede soprattutto in quel buco dentro la montagna dove mi spacco il culo per dodici ore al giorno, sei giorni a settimana. Dicono che è il più grande tunnel dell’Europa o del Mondo, ora non ricordo. Per me è solo un buco fottuto che mi ruba la luce del sole, ma è lavoro e vuol dire tanto.
Dovevo partire domani per venire da te ma non ho resistito, la voglia di vederti era troppa. Chi se ne frega, allora, se sono stanco del turno e la strada è tanta. Ti faccio una sorpresa e ti porto un bel regalo, penso. Nelle poche uscite del sabato, coi colleghi, ho visto in un negozietto un paio di scarpe, di quelle artigianali, col tacco fine ed alto, turchesi, rosse e nere. Penso che di sicuro ti piacciono e anche se son molto costose e dobbiamo risparmiare per il matrimonio e la casa e poi chissà, un figlio, mi voglio togliere lo sfizio di vedertele addosso e farti felice e io insieme a te.
Mi fermo per l’ultimo caffè e per una sigaretta. Dovrebbero bastare per arrivare. Finalmente l’uscita dall’autostrada. Vedo il nome del paese scritto sul cartello e le curve strette mi rianimano un po’. Mi rimettono in sesto gli occhi. L’adrenalina e la contentezza fanno il resto. Sono eccitato che tra un po’ ti riabbraccio e ti bacio e potremo fare l’amore dopo tanto tempo e spero di ricordarmi come si fa. Sì, penso di ricordarmelo come si fa, e rido.
Sono quasi sotto casa. Saranno passati sei mesi dall’ultima volta. Le villette dei vicini hanno gli alberi in fiore e c’è qualche chiosco tirato su per far il fresco all’estate che arriva. È tardi, tu sarai a letto e non mi aspetti. Parcheggio. Lascio stare la valigia e prendo solo il tuo regalo. Voglio avere le mani libere per stringerti forte.
Salgo le scale in silenzio e preparo le chiavi senza far rumore. Non voglio svegliarti e neanche spaventarti. Ho pensato che magari ti faccio un squillo sul cellulare e poi ti dico che sono in cucina. Mi sembra uno scherzo divertente.Apro piano piano la porta di casa. C’è la luce debole della lampada in salotto e sento odore di pesce. A te piace tanto cucinare il pesce, a me mangiarlo. Anche la nostra camera è illuminata da una luce gialla e traballante, saranno le candele alla vaniglia che abbiamo preso all’Ikea. Passo un attimo davanti lo specchio in soggiorno per rassettare la camicia stropicciata e lisciarmi un po’ la barba incolta. Penso alla faccia che farai e alle parole che dirai quando mi vedi. Vengo da te, ancora con il regalo tra le mani. Se dormi ti guardo un attimo perché sei bellissima quando dormi. Mi avvicino senza far rumore e con il dorso delle mani stropiccio gli occhi stanchi per mettere a fuoco alla nuova luce. Per un attimo resto cieco e poi tanti puntini luminosi mi girano per la testa e poi mi torna la vista. Non capisco e penso che quello che vedo è un sogno, un brutto sogno. Non può essere che quell’uomo dalle spalle larghe e scure è sopra di te, sul nostro letto, in casa nostra. Rimango gelato qualche attimo e poi mi succede che le braccia mi diventano molli e, d’un tratto, mi si ferma il cuore ed è come se morissi. La scatola che ho in mano cade sul pavimento e l’uomo si volta al rumore. Intravedo nella poca luce gli occhi verdi di Antonio, il mio amico, il carabiniere. Ora sento dentro la pancia un fuoco che mi sale e il sangue che bolle nelle vene arriva fino in testa come la lava di un vulcano e mi brucia il cervello e mi fa esplodere gli occhi. Le braccia molli mi diventano cemento e acciaio e una forza incontrollata mi muove le gambe e non capisco più niente. Raccolgo una scarpa da terra e con un salto, che sembro un animale, mi avvento su quell’uomo. Il pantalone con le bande rosse è per terra, il cappello con la fiamma e la cintura con la pistola ben chiusa nella fondina sulla sedia. La mia sedia.
Antonio non riesce a dire niente, la testa piegata come di fronte il plotone di esecuzione, il peso del giudizio sul collo. Si volta verso di te. Le sue labbra bisbigliano qualcosa ma senza suono. Tu ancora non hai capito. Neanche io ho capito. Non capisco un cazzo e mi comporto come quelle donne possedute dal diavolo che ho visto da bambino, quando venivano da mia nonna per farsi curare con l’olio benedetto e la croce disegnata sul petto. Io non mi oppongo al demonio, non voglio essere curato. Mi ritrovo questa scarpa in mano che non so neanche perché e ci metto niente, con la forza che ho in corpo, a schiantare quel tacco appuntito sulla nuca del mio amico Antonio. Gli infilo la scarpa dritta all’attaccatura tra testa e collo. Antonio si piega in due come un pezzo di cartone e nemmeno una goccia di sangue esce da quella testa molle poggiata sul tuo seno. Finalmente vedo il tuo viso e i tuoi occhi, che sono di vetro, verdi come i fondi di bottiglia, spessi e opachi che ci guardi dentro e vedi il mondo tutto storto. La tua bocca spalancata e rossa non emette un fiato. Sei di pietra e io non ho nulla per farti tornare carne. Non dico niente. Esco. Vado verso il bar, come altre mille volte quando stavo al paese. Gino sarà ancora in piedi, come al solito, dietro il bancone, a servire le ultime sambuca. Saluto. Chiedo una birra. Gino, in silenzio, me la apre e la versa nel bicchiere. Tutto come sempre. Non cambia mai niente qui al sud.
(immagine originale di io.corallo)
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Questo racconto è stato scritto per il Blog di Grazia e lo potete trovare anche qui.